La prematura scomparsa del presidente del parlamento europeo David Sassoli ha lasciato un vuoto nella rappresentanza del nostro paese e di una voce rispettata e autorevole nelle istituzioni dell’Unione. Molto probabilmente anche le istituzioni nella loro opera di gestione della crisi dei migranti sentiranno di aver perso un convinto sostenitore della riforma del sistema di Dublino. Questo è il sistema che regola la distribuzione dei migranti tra i vari stati europei in caso di ingresso di richiedenti asilo in uno qualsiasi degli stati europei. Per molto tempo ormai questo sistema è stato più volte tacciato da chi sostiene politiche di maggiore contenimento, dell’Europa-fortezza dell’Occidente di non tutelare gli interessi dei cittadini europei e al contrario per i garantisti dei diritti dei migranti di non offrire una sufficiente protezione a chi richiede asilo in uno dei paesi dell’Unione.
Per molti l’eredità filantropista che lascia Sassoli con la sua scomparsa pone nuovamente al centro del dibattito politico la necessita di ripensare questo sistema perché sia in grado realmente di sostenere politiche migratorie che possano davvero definirsi umane. Ma per sbrogliare questa complicata matassa vediamo prima quali sono i punti più dibattuti del sistema di Dublino? E quali sono gli ultimi scenari che si sono aperti nel nuovo clima politico dopo l’insediamento della nuova presidente del parlamento europeo, lo scorso 18 gennaio?
Come funziona il sistema di Dublino?
Nella diplomazia tra gli stati dell’unione trovare un’unica visione per le politiche migratorie considerato quanto sono esposti ai movimenti sia dei richiedenti asilo che dei migranti economici è sempre stato ricorrentemente uno dei talloni d’Achille dell’Unione Europea. Il sistema di gestione dei richiedenti asilo più aggiornato applicato ad oggi è il cosiddetto Regolamento Dublino III. Questo è semplicemente una legge entrata in vigore nel 2014, che stabilisce come un richiedente asilo, ovvero un migrante, possa chiedere una domanda di protezione internazionale e soprattutto in che modo sia possibile determinare l’autorità competente, quindi lo stato, che si occupi della gestione della sua domanda: il suo ingresso, ricollocamento, accoglienza o espulsione dal paese.
Le critiche che vengono fatte dalle istituzioni come dall’Onu e dal Consiglio europeo per una riforma che tuteli maggiormente diritti dei richiedenti sono le seguenti:
- • Tempi di attesa prima di esaminare le richieste; l’esecuzione della procedura di richiesta dovrebbe essere garantita in tempi ragionevolmente rapidi, quando spesso può richiedere anche anni ed a volte non tutte le domande sono esaminate;
- • Scarsa importanza che viene data ai ricongiungimenti familiari. Si lamenta infatti la difficoltà con cui viene attualmente tutelato l’accesso a questo diritto.
- • L’obbligo di presentazione della domanda del paese del primo ingresso che sottopone maggiore pressione i paesi a sud dell’Europa e quelli lungo la rotta balcanica.
In particolare, il tema più divisivo è per ora quello che riguarda il paese del primo ingresso. Secondo “l’articolo 13” del regolamento di esecuzione, infatti, la domanda del migrante dovrà essere sottoposta allo “stato membro in cui il richiedente asilo è entrato varcando le frontiere in modo irregolare”. Questa condizione va, per ovvie ragioni, a mettere in difficoltà i paesi ai confini dell’unione poiché date le modalità di ingresso della maggior parte dei migranti politici ed economici, ovvero via terra o via mare gli stati ai confini si trovano ad dover predisporre l’accoglienza della maggior parte di queste domande. In particolare, i paesi ostili a una riforma di questo sistema sono concentrati nell’Europa orientale, ovvero quelli che si sentono più minacciati da una possibile redistribuzione dei migranti, in un clima politico che è stato definito a tratti dalle organizzazioni umanitarie apertamente xenofobo, tra cui l’Ungheria di Orban, Polonia, Lettonia, Repubblica Ceca e Slovacchia; i cosiddetti paesi del gruppo di Visegrad.
Quali sono le ultime dichiarazioni dopo l’elezione di Roberta Metsola?
David Sassoli da filantropo prima come volto del TG1 e dopo da uomo politico delle istituzioni comunitarie, pur nel suo ruolo super partes di presidente del parlamento, era da sempre stato un paladino della solidarietà sull’accoglienza dei migranti.
La sua improvvisa scomparsa ha lasciato un vuoto ed allo stesso tempo ha rilanciato un tema finora spinoso, sia per i partiti di centro sinistra che per la coalizione delle frange sovraniste che hanno tratto spinta politica nei diversi paesi dell’unione. L’elezione di Roberta Metsola, del Ppe (partito pololare europeo), tra quelli divisi riguardo alla questione riforma dell’accordo di Dublino, proviene dalla militanza nel partito nazionalista di Malta che, come paese, si è più volte detto favorevole a una più equa ridistribuzione dello sforzo per l’accoglienza dei migranti. Malta, inoltre, ha ospitato i rappresentanti politici di Francia, Italia, Germania, e appunto Malta, un gruppo di stati tra i più motivati a una migliore gestione dei flussi per alleggerire la tenzione tra i paesi dell’Unione.
I politici italiani sul sistema di Dublino
La forza della spinta al cambiamento tra i partiti italiani di questo regolamento viene certamente con forza dall’area moderata del centro sinistra. Non è un caso, infatti, che il segretario del Pd, Ernico Letta, abbia ricordato l’impegno profuso su questo tema dallo scomparso presidente per rendere l’Europa meno fortezza e più umana, in concomitanza con l’insediamento della giovane Metsola.
Al fronte opposto, c’è con tutta probabilità la Lega che nel corso degli anni in seno alle istituzioni europee non ha mai partecipato alle riunioni per discutere la modifica di legge, astenendosi poi l’ultima volta che una discussione sulla modifica è arrivata, per essere poi archiviata, nell’emiciclo del parlamento a Strasburgo, ormai nel lontano 2017. L’altra resistenza alla modifica inaspettata è quella portata avanti dal movimento 5 stelle che sostenendo una linea oltranzista nella stessa votazione in Europa si è espresso contro la modifica, giustificando l’opposizione con la necessità di una riforma ancora più radicale di quella proposta in sede parlamentare.